Petrolio: l’export statunitense è destinato a quadruplicare in pochi anni
Nei prossimi tre anni le esportazioni statunitensi di petrolio sono destinate a quadruplicare permettendo alla prima economia di superare l’export di diversi membri dell’Opec. È quanto emerge da un report elaborato dalla società di consulenza PIRA Energy. Al 2020, stima la società newyorkese (ora una divisione di S&P Global Platts), le esportazioni di greggio statunitense saliranno in quota 2,25 milioni di barili giornalieri. Nel 2016, il Kuwait ha esportato 2,1 milioni di barili, la Nigeria 1,7 e gli Stati Uniti 520 mila.
Vietate per decenni, le esportazioni statunitensi sono ripartite, destinazione Europa e Cina, a fine 2015. La “vicinanza” al comparto e volontà di favorire la produzione interna ha fatto sì che anche la nuova amministrazione Trump veda di buon occhio la vendita di WTI su altri mercati.
Secondo le stime diffuse ieri dall’EIA (Energy Information Administration), la divisione statistica del Dipartimento dell’Energia, l’output statunitense quest’anno si attesterà a 9,3 milioni di barili, contro gli 8,9 milioni di un anno fa. Per il 2018, l’EIA stima un incremento della produzione a 9,9 milioni di barili.
“Gli Stati Uniti sono destinati a diventare uno dei primi 10 esportatori a livello mondiale”, ha detto Gary Ross, n.1 per il greggio di PIRA. Gli Stati Uniti “non sono membri dell’Opec e quindi non devono porre un freno alla produzione per sostenere i prezzi. Si tratta di una notizia decisamente negativa per l’Opec”.
Nonostante una produzione interna in forte aumento, l’anno scorso la prima economia ha importato in media 7,9 milioni di barili ogni giorno.
Questo perché, in genere, il petrolio in arrivo da fonti non convenzionali non è adatto ad essere lavorato dalle raffinerie a stelle e strisce, poco idonee ad operare con idrocarburi “dolci” (a basso tenore di zolfo) come quelli della prima economia.