Fed, si scommette su rialzo tassi a marzo, focus su dollaro. Ma Pimco avverte: Usa stanno vincendo guerra fredda valutaria
Prossimo obiettivo, la riunione della Fed di marzo, dove il Fomc diretto dal neo presidente Jerome Powell alzerà molto probabilmente i tassi sui fed funds Usa. Tassi che, nella prima riunione del Fomc del 2018, sono stati lasciati invariati al target attuale, compreso tra l’1,25% e l’1,5%.
Solo una pausa, in ogni caso visto che, al termine della riunione di due giorni del Fomc, terminata ieri, dopo aver alzato i tassi tre volte nel 2017 e aver previsto a dicembre tre nuove strette monetarie per quest’anno, la Banca centrale Usa ha reso noto che “ulteriori aumenti graduali” sono giustificati.
I mercati hanno ricevuto subito il messaggio, tanto che ora i futures sui fed funds stanno scommettendo sul prossimo rialzo dei tassi targato Fed tra due mesi, con una probabilità di ben il 99,1%.
E Michael Gapen, responsabile economista presso Barclays, stima ora “quattro strette monetarie” nel corso di quest’anno.
D’altronde il Fomc, il braccio di politica monetaria della Fed, ha scritto nel comunicato che “l’inflazione a 12 mesi dovrebbe salire quest’anno e stabilizzarsi” attorno al target della Fed, nel medio termine. La fiducia nel trend delle pressioni inflazionistiche sostiene le speculazioni di chi ritiene che la politica monetaria della Fed sarà ancora più hawkish, da falco. La Banca centrale stima tra l’altro una ulteriore accelerazione dell’inflazione nel corso della primavera e fafa notare che sono le stesse aspettative sull’inflazione misurate dai mercati a essere salite negli ultimi mesi.
Uno scenario del genere, in teoria, dovrebbe essere bullish per il dollaro. Ma tale assunto è tutto fuorché scontato, nonostante si sappia anche da parecchio che la politica monetaria della Fed si sostanzierà non solo nell’aumento del costo del denaro ma anche nello smantellamento degli asset acquistati attraverso il piano di Quantitative easing che è stato inaugurato dall’istituto nei tempi bui della crisi finanziaria.
Per ora la logica che lega la performance del forex, in particolare dell’euro e del dollaro, agli orientamenti di politica monetaria sembra essere stata archiviata.
L’euro continua a salire – anche se ha ritracciato dal record in più tre anni testato oltre quota $1,25 la scorsa settimana, a dispetto tra l’altro delle dichiarazioni dovish di Mario Draghi, numero uno della Bce – e il dollaro rimane debole, a dispetto anche del balzo dei tassi sui Treasuries, che dovrebbe rendere di per sé più appetibili gli asset denominati in dollari.
Di certo non hanno aiutato le parole del segretario al Tesoro Usa Steven Mnuchin che, parlando da Davos la scorsa settimana in occasione del World Economic Forum, ha detto che la debolezza del dollaro può essere positiva per l’economia Usa, sia in termini di commercio che di opportunità.
Certo, Donald Trump ha poi tentato di correggere il tiro, affermando di essere invece favorevole a un dollaro forte.
Ma ciò non ha sicuramente impedito al Dollar Index di chiudere il mese di gennaio peggiore dal 1987, dopo lo scivolone dell’11% nel 2017.
Il trend è sotto gli occhi di tutti e sarà sicuramente condizionato più dall’approccio che Trump vorrà dare alla politica commerciale Usa che non, probabilmente, alle scelte sui tassi della Fed (che sono, tra l’altro, ampiamente scontate, mentre meno scontato è ciò che farà la Bce di Mario Draghi).
A tal proposito arriva la dichiarazione di Joachim Fels, responsabile consulenze per l’economia globale di Pimco, che fa notare che la verità è che gli Stati Uniti stanno combattendo e vincendo la guerra fredda valutaria.
“La guerra fredda non si combatte in modo aperto (per esempio, attraverso interventi sul mercato valutario, ma con dichiarazioni e azioni sotto copertura. E queste azioni stanno inviando un segnale implicito, ma molto chiaro, ai mercati. Quello che indica come l’obiettivo (dell’amministrazione Usa), sia un dollaro più debole”.
Trump potrà aver detto anche che Mnuchin è stato frainteso. Ma secondo Fels, i mercati hanno ben capito il messaggio che gli Usa hanno lanciato, e anche da parecchio. Anche perchè, sottolinea l’esperto, di fatto ciò che si sta scontando è il protezionismo che, a dispetto degli alert lanciati dalle istituzioni di tutto il mondo, Trump sta lasciando intendere di volere utilizzare: come arma per difendere gli interessi della sua America.
Così ha intanto commentato la prima riunione della Fed del 2018 Sophia Ferguson, senior portfolio manager active fixed income and currency di State Street Global Advisors:
“Con il percorso di rialzo dei tassi ormai avviato da parte della Fed, l’ultimo meeting del FOMC sotto la presidenza di Janet Yellen ha avuto scarsa risonanza. I dati economici durante il periodo intercorso tra il meeting di dicembre e quello odierno si sono evoluti in linea con le prospettive di dicembre e i mercati finanziari hanno già incorporato nelle valutazioni un rialzo dei tassi a marzo”.
“Gli ultimi dati economici rimangono coerenti con il percorso di aumento dei tassi proposto dal Fomc per il 2018, ma il tema chiave per il Fomc sarà di quanto aumentare i tassi. Mentre l’impatto del pacchetto fiscale sulla politica monetaria è diventato recentemente molto importante, saranno necessari rialzi più rapidi e aggressivi solo se la politica fiscale aumenterà la domanda quanto basta per produrre un incremento inatteso della crescita e un calo inaspettato della disoccupazione. Riteniamo che la politica fiscale non fornirà un forte stimolo alla domanda aggregata, ma piuttosto avrà degli impatti sul lato dell’offerta con un limitato impulso inflazionistico. Date le pressioni inflazionistiche limitate e una curva dei rendimenti più piatta, attendiamo ora il verbale del meeting, che sarà pubblicato il 21 febbraio, per raccogliere informazioni su un possibile dibattito in merito alle prospettive di normalizzazione dei tassi o su un modello alternativo di politica monetaria “.