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Wall Street ricorda il Black Monday nella fase di mercato toro più lunga della sua storia

19 Ottobre 2018 17:21

Sono trascorsi esattamente 31 anni quando, in quel terribile giorno del 19 ottobre del 1987, i listini azionari crollarono in tutto il mondo. L’evento viene tuttora ricordato come Black Monday, il lunedì nero dei mercati. Basti pensare che, quel giorno, il Dow Jones crollò di oltre -500 punti, chiudendo con un tonfo del 22,6%, che rimane tuttora il più forte della storia di Wall Street.

Wall Street si trova a ricordare il Black Monday del 1987 nella fase di mercato toro più lunga della sua storia (che dura da ben nove anni): è da nove anni che si parla infatti di bull market e finora il sentiment ha stupito anche i ribassisti più accaniti.

C’è da dire, tuttavia, che i buy scatenati si sono presentati con frequenza sempre minore in queste ultime settimane, sulla scia dei timori di una frenata della crescita economica globale e di una politica monetaria meno conciliante, ovvero più restrittiva, non solo da parte della Federal Reserve di Jerome Powell (che continua imperterrita ad alzare i tassi), ma anche da parte della Bce di Mario Draghi, visto che il programma di Quantitative easing si sta pian piano spegnendo, nell’attesa di essere interrotto alla fine dell’anno.

Il crollo del Black Monday si conferma tuttora il più forte nella storia di Wall Street:  né il crash precedente del 1929, poco prima della Grande Depressione, e neanche gli attacchi terroristici dell’11 settembre del 2011 e la crisi finanziaria del 2008 videro protagoniste flessioni così importanti. Non fu inoltre solo Wall Street a cadere vittima degli smobilizzi. Le vendite colpirono le borse di tutto il mondo, tanto che la borsa neozelandese, per esempio, perse in una sola seduta il 60%.

La motivazione è che i mercati avevano corso davvero troppo nel primo semestre del 1987: basti pensare che, entro la fine di agosto, il Dow Jones aveva incassato un rally di ben +44% nell’arco di sette mesi, alimentando la paura di bolle speculative pronte a esplodere da un momento all’altro.

La situazione, almeno per quanto concerne la borsa Usa, precipitò alla metà di ottobre, quando il governo degli Stati Uniti rivelò un livello di deficit commerciale decisamente peggiore delle attese che scatenò le vendite sul dollaro. Il quadro peggiorò la settimana successiva, con il Dow Jones che concluse la seduta del 16 ottobre del 1987 con una flessione del 4,6%.

A diffondere il panico furono le dichiarazioni dell’allora segretario al Tesoro Usa James Baker che, nella giornata di sabato 17 ottobre 1987, minacciò pubblicamente di svalutare il dollaro, al fine di frenare la crescita del deficit americano.

E’ vero che al crollo contribuirono anche alcune lacune strutturali che caratterizzavano all’epoca le operazioni di trading. Al momento della crisi i mercati azionari, delle opzioni e dei futures utilizzavano per esempio tempi diversi per le operazioni di compensazione  e non disponevano neanche dei circuit breakers, che vennero lanciati proprio a seguito del Lunedì nero, al fine di fermare le contrattazioni quando i titoli azionari fossero scesi troppo e troppo velocemente.

Oggi giorno, nel caso in cui si presentasse un calo anche del 7%, il trading verrebbe sospeso per 15 minuti. Una flessione del 20%, invece, sospenderebbe le contrattazioni per il resto della giornata.

C’è da dire allo stesso tempo, come fece notare nel 2006 l’ex vice presidente della Federal Reserve Donald Kohn che, “contrariamente alle crisi finanziarie precedenti, il crollo dei mercati azionari che si verificò nel 1987 non fu legato a nessun episodio di corsa agli sportelli o di qualsiasi altro problema relativo al settore bancario”.

In più, Wall Street si riprese molto velocemente dalle perdite subite. In due sedute appena, il Dow Jones guadagnò 288 punti o il 57%, di tutta la flessione che aveva accusato nel giorno del Black Monday. E in meno di due anni, i mercati azionari Usa superarono i massimi testati prima del crash.